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Maggio ’43 all’Argentina

Davide Enia, è tornato sul palco del Teatro Argentina, giovedì 17 settembre, con Maggio ‘43, riproponendo una delle vicende belliche più strazianti per la città di Palermo. Drammaturgo, attore, scrittore e regista, raggiunge il successo con il monologo di narrazione Italia-Brasile 3 a 2 e dopo la stesura di Maggio’43, si afferma come uno dei maggiori esponenti del cosiddetto teatro di narrazione. Riceve numerosi riconoscimenti tra cui il Premio Ubu nel 2003, per la nascita di un nuovo cantastorie, il Premio Hystrio nel 2005 alla Drammaturgia e nel 2019 tornerà a ricevere il Premio Ubu, per l’opera teatrale L’abisso.

In Maggio’43, l’autore accompagnato dalla musica di Giulio Brocchieri, narra le vicende di alcuni sopravvissuti al bombardamento di Palermo, del Maggio’43, in meno di venti minuti vi furono più di 1.500 vittime, la furia delle bombe alleate rase al suolo la città, colpendola duramente nel suo tessuto urbano e nella sua storia, nulla venne risparmiato, abitazioni civili, chiese, palazzi nobiliari, monumenti, in soli 40 minuti gli aerei anglo-americani sganciarono sulla città 1570 bombe.

L’autore, nel suo spettacolo di voce e musica, partendo da una serie di interviste, raccoglie le testimonianze di chi visse quei giorni di terrore, di chi miracolosamente uscì illeso da quel disastro, quando tutto si perse, tra le strade piene di polvere e fumo, sangue e macerie, morte e distruzione. Il ritmo del dialetto siciliano, valorizzato da un attento e originale recupero del “cuntu”, scandisce le voci dei palermitani e delle palermitane che vissero quei giorni. Il protagonista recupera e sonda frammenti di memoria che confluiscono in un unico flusso narrativo, intreccia e rielabora queste testimonianze in un’unica storia, la storia di Gioacchino e della sua famiglia. Il piccolo Gioacchino ha solo dodici anni e racconta al fratello morto la sua esperienza da sfollato, dorme in una carriola e la mattina presto, accompagnato dallo zio, deve andare a procurarsi quel poco che la famiglia può permettersi per sopravvivere, l’unica via per restare vivi, in una realtà cruda e nuda, dove si scava nei cumuli di macerie. Sono tempi atroci, bui e non c’è spazio per l’innocenza infantile. Sul palco vi sono solo due sedie, l’attore e il musicista, non vi sono scenografie, il canto della parola incanta ed emoziona, è un susseguirsi di immagini, la bellezza della parola riempie il palco e trascina il pubblico dentro la sacralità del racconto, che riporta a quei giorni di dolore, ma allo stesso tempo ai giorni in cui, come scrive l’autore nella Nota al volume “C’era la vita che pulsava dentro le vene, fanculo il mondo in guerra,vivere era un’urgenza, sopravvivere non poteva bastare”

Dall’inizio alla fine è un crescendo di emozioni, un velo di ironia si intreccia all’incalzare dei racconti di Gioacchino che ci mostra l’assurdità della guerra, ci fa commuovere ma anche sorridere, perché la vita è più forte della guerra, e straripa dai racconti del dodicenne.

Il volto del narratore si trasforma, e nonostante rimanga fermo su una sedia, prende mille direzioni e attraversa strade, piazze, case, cortili, accellera e rallenta, il ritmo del testo cattura l’attenzione dello spettatore, le parole prendono forma e sembra quasi di vedere lo zio Cesare, con la statua di Santa Rosalia, la zia Enza che cucina sempre e litiga sottovoce con suo marito, lo zio Baldo che gioca a carte, Umbertino che deve sempre occuparsi del padre, e la zia Assunta che non dice mai niente.

La narrazione, accompagnata dalle musiche composte con sapienza e grazia, dal chitarrista Giulio Brocchieri, generano un’atmosfera intima e raccolta, l’intensità della chitarra permette allo spettatore di calarsi ancor più nella storia. Ironia, drammaticità, commozione, c’è tutto nel racconto incalzante di Enia, gesti puntuali, precisi, misurati, e c’è la verità delle storie, degli aneddoti, dei personaggi, la verità della memoria che resta.

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