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Valeria Oppenheimer: la moda che (forse) verrà.

Inizio la mia collaborazione con ArtsEvent.eu con l’intento di parlare di un settore a me caro per trascorsi personali e passione naturale: la moda. 

Lo farò, inizialmente, tramite chiacchierate con addetti ai lavori, distributori e professionisti della comunicazione per capire come sta cambiando il mondo del fashion business anche, e soprattutto, alla luce del post emergenza Covid-19.

Questa fase, contrassegnata in ogni ambiente da un blocco totale della produzione, ha imposto anche a tutta la filiera della moda una frenata, con enormi perdite dovute alla sostanziale impossibilità per negozianti e clienti di godere delle collezioni primaverili, rimaste quindi nei magazzini con reciproco danno.

E così, nelle speculazioni sul senso di questa nuova realtà che tutti noi abbiamo esperito durante le lunghe giornate trascorse in casa, in molti hanno guardato con disincanto al crollo di quel modo di vivere fino a pochi giorni prima ritenuto l’unico possibile.

Il mondo della produzione artistica, depurato dalle costrizioni del mercato che sempre più spesso ne ha annichilito l’estro creativo, ha così riscoperto un bene dimenticato ormai da anni: il tempo.

Giorgio Armani, da perfetto interprete della contemporaneità, anche in questo caso ha saputo cogliere il cambiamento in atto e per primo renderlo palese con una lettera aperta inviata al giornale statunitense WWD: “Il declino del sistema moda, per come lo conosciamo, è iniziato quando il settore del lusso ha adottato le modalità operative del fast fashion con il ciclo di consegna continua, nella speranza di vendere di più…Io non voglio più lavorare così, è immorale”.

Il fast fashion, esattamente. Quello per capirci di Zara, H&M, e di tanti altri distributori che con i loro ritmi e con la loro forza produttiva, hanno ormai da molti anni imposto un passo a tutto il comparto non più sostenibile. 

Per parlare di questa condizione di stress evidenziata dal grande stilista, mi sono rivolto ad una persona che di moda vive, frequentandola per lavoro e per passione, come si capisce benissimo dopo pochi minuti di conversazione: Valeria Oppenheimer (@valeriaoppenheimer), fashion reporter e docente all’Accademia del Lusso di Roma.

Grazie per il tempo che mi dedichi, cosa stai facendo in questo periodo?

Proprio in questi giorni sto lavorando ad un corso da tenere in modalità video e quindi sto approfittando del rallentamento di tutto il settore per portare avanti gli impegni di docenza. 

Sono stata inoltre molto impegnata con una serie di dirette sul mio canale Instagram dove ho intervistato tanti personaggi legati al fashion system.

Parlando di rallentamento mi lego subito al lockdown ed alle conseguenze che ha avuto sul mondo della moda. Cosa pensi delle parole di Giorgio Armani? Sembra quasi siano maturi i tempi per un cambiamento. 

Il discorso è lungo e abbastanza articolato. Il problema di cui parli, e che Giorgio Armani ha espresso benissimo nella sua lettera, è reale ma non è assolutamente una novità nell’ambiente. 

Per comprendere il perché delle sue parole, bisogna ripercorrere a ritroso un po’ di storia di questo mondo, per scoprire come quella attuale sia la risultante di anni di trasformazioni. 

La moda inizialmente, quindi parliamo tra la fine del XVIII e metà del XIX secolo, era una questione per pochi. Almeno quella che noi definiamo alta moda. Gli stili venivano imposti dagli strati sociali più ricchi, e da loro irradiati verso quelli più bassi con le logiche proporzioni. Era un’organizzazione che rispecchiava sostanzialmente le gerarchie sociali vigenti. Rigide, ma comprensibili. Gli stilisti erano artisti impegnati nel concepimento di capi che dovevano riflettere un’ideale e trasmettere un messaggio. 

Tutto questo cambierà dalla metà del secolo scorso quando, in conseguenza di una svolta sociale, si assisterà alla nascita di un movimento di stilisti che non guarderà più agli strati più alti  per rivolgersi, al contrario, a quelli meno abbienti, inaugurando una svola dal basso che porterà alla ribalta capi di abbigliamento più reali e meno patinati. Il grunge diventerà una di questa novità.

Questo sconvolgimento ha avuto almeno due conseguenze. Da una parte ha reso lo stile un questione non più riservata ad uno specifico strato della società, permettendo ad ognuno di poter interpretare il proprio outfit a prescindere dal ceto sociale. Dall’altro ha imposto un cambio di paradigma a tutto il mondo della moda che fino a quel momento aveva dominato la scena.

Il resto è storia.

Con il passare degli anni non è stato più possibile per nessuno parlare di un mercato rivolto a specifici strati sociali. La globalizzazione ha portato a sdoganare modelli percepiti sempre più vicini e quindi ad adottarne stili e comportamenti, anche se vicini nella realtà dei fatti non erano né sono mai realmente stati.

A cosa ti riferisci di preciso? Mi sembra di capire che è come se ad un certo punto il mondo della moda si sia trovato a dover parlare tanto all’attore di Hollywood quanto all’impiegato, proponendo modelli fruibili a prescindere dalle reali possibilità. Una rivoluzione rispetto alla situazione da cui eri partita nella ricostruzione storica. 

Sì, in un certo senso è così. O meglio: la gente ha cominciato a percepire la moda come qualcosa non più pensata per pochi privilegiati e quindi a sviluppare, tramite le logiche dal basso di cui ti ho parlato, un proprio stile. Questo ha fatto in modo che in un primo momento nascessero collezioni pensate per un pubblico meno elitario ma non meno sofisticato, e in conseguenza che si avviasse una mutazione genetica del fashion system, che in breve ha portato alla comparsa di quello che tutti conosciamo come fast fashion.

Alcune aziende, difatti, intercettando la necessità delle persone di esprimere anche attraverso l’abito il proprio IO, hanno iniziato a sviluppare collezioni sempre più simili a quelle dei grandi marchi, ma a prezzi decisamente più accessibili. Questo approccio ha segnato definitivamente una rivoluzione copernicana nel mondo del lusso, che è poi quella di cui parla Armani.

Parli della frenesia con cui ormai si è arrivati a produrre di continuo inseguendo il mercato e i consumatori fin quasi a renderli dipendenti. Ancora volendo citare Armani, ad un certo punto della sua lettera si legge: “Non ha senso che una mia giacca, o un mio tailleur vivano in negozio per tre settimane, diventino immediatamente obsoleti, e vengano sostituiti da merce nuova, che non è poi troppo diversa da quella che l’ha preceduta. Io non lavoro così, trovo sia immorale farlo”

Esattamente. La verità è che negli ultimi anni l’industria della moda ha alimentato questo modo di produrre, nutrendo di continuo le aspettative dei clienti e abbassando di conseguenza il livello stesso dell’offerta, anche dei marchi più prestigiosi i quali, stretti in un mercato sempre più competitivo, sono stati costretti a scendere nell’arena e cedere alle regole del fast fashion.

Armani non è l’unico, c’è stato di recente un post del Direttore Artistico di Gucci Alessandro Michele, seguito da una conferenza, nel quale anticipava alcune decisioni prese per il futuro del marchio da lui diretto in linea con le considerazioni di Giorgio Armani. 

Ma tu pensi che questa ventata di consapevolezza sarà duratura?

A dirla tutto io non so nemmeno se sarà reale. Non voglio dire che non creda alle parole di tutti gli addetti ai lavori che si sono espressi in questo periodo e ne condivido a pieno lo spirito, sia ben chiaro. In molti hanno anche riportato a galla il tema dell’ecosostenibilità di un’industria che molte volte è stata al centro delle critiche per modelli di produzione e condizioni di lavoro degli addetti. Quindi una presa di coscienza sarebbe sicuramente la benvenuta. 

Però?

Però sono discorsi che chi frequenta questo ambiente sente da molto tempo. La verità è che uno stilista o due, non saranno in grado di mutare gli equilibri generali di un mercato che si muove in maniera scomposta e difforme. Non è un mondo organizzato in cui le varie firme riescono a fare massa critica per indirizzare scelte industriali. Non lo è mai stato, magari dopo il Corona Virus cambierà, non lo so, però per adesso ci muoviamo nel campo delle ipotesi e delle buone intenzioni.

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