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Esegesi del film “L’ultimo uomo della Terra” e intervista all’esperto di simbologia Valerio Raimondi


“L’ultimo uomo della terra” è un film di Ubaldo Ragona & Sidney Salkow (1963 ITA 86′). Piccolo amaro gioiello dell’horror nostrano, tratto dal capolavoro di Richard Matheson “Io sono leggenda” e illuminato da un’intensa interpretazione di Vincent Price e da una fredda e spettrale fotografia di Franco Delli Colli. L’attore riesce a rendere compiutamente tutta la desolazione di un’anima tragicamente rassegnata a vivere in un mondo apocalittico in cui l’intera umanità si e’ estinta, colpita da un’epidemia veicolata da un misterioso germe trasportato dal vento. Gli esseri umani sono stati trasformati in non morti (a metà strada tra gli zombi e i vampiri), che si nutrono di sangue; sono ciechi e non sopportano l’aglio, gli specchi, le croci e la luce del sole. Le deprimenti giornate del protagonista, un affermato scienziato di nome Morgan (immune all’epidemia perché in passato morso da un pipistrello), da tre anni si susseguono ripetitive ed egli si comporta come un automa facendo fronte sempre alle medesime problematiche: procurarsi cibo, aglio, specchi e benzina prima che venga il tramonto; fabbricare paletti in frassino e perlustrare i quartieri della città alla ricerca di non morti da impalare e poi bruciare in una fossa comune. Il problema spesso e’ tornare prima del tramonto, momento in cui gli zombi/vampiri si risvegliano assetati di sangue fresco e gli assediano la casa con estremo furore, arrivando anche a chiamarlo per nome, memori della loro vita passata. La vita del protagonista diventa così quella di uno sterminatore sull’orlo della follia, tormentato sia dalle urla e dalle scorrerie dei non morti che dai laceranti ricordi della vita passata. Numerose le sequenze che si imprimono nella memoria: tra cui quelle girate in un desolato Eur romano disseminato di cadaveri, poi le durissime sequenze del flashback in cui autocarri dell’esercito prelevano gli infetti per portarli al rogo e infine la scena geniale in cui un isterico Price ascolta sul giradischi musica jazz, mentre fuori dalla casa impazza l’inferno. Un barlume di speranza si ha nel film quando il protagonista intercetta un cane, ma l’esame microscopico del sangue di quest’ultimo mostrerà implacabilmente l’infezione in atto e Morgan dovrà provvedere all’ennesimo doloroso sacrificio. Sul finale lo scienziato verrà adescato da una donna, mandata da una piccola comunità di superstiti, che hanno scoperto una forma di vaccino immunizzante transitorio, creando così una nuova razza, intermedia tra gli esseri umani e i non morti. Questa comunità di semi-vivi ha un’estrema paura dello scienziato, poiché questi nelle sue scorribande diurne ne ha già uccisi un buon numero scambiandoli per i non morti, ed è decisa ad eliminare la minaccia proveniente dall’ultimo uomo della terra, per dare così il via ad una nuova civiltà. Lo scienziato sul finale ha un’illuminazione sul possibile vaccino per il germe, ma la rabbia dei semi-vivi lo travolge. Dopo aver subito uno straziante martirio, finirà giustiziato sull’altare di una chiesa, mentre esclama “Fermi! Io posso salvarci tutti!” E’ LUI ora il mostro, il diverso. E qui il film scopre le sue carte disvelandosi come “imitatio christi” e mostra come le speranze per l’umanità in piena guerra fredda siano veramente inesistenti. Non dimentichiamoci poi che dal germe di questo film e dal romanzo di Matheson prenderà vita, da lì a poco, il sovversivo filone degli zombi di Romero

Ho intervistato Valerio Raimondi, esperto di simbologia e Tradizioni antiche, per avere un quadro del film più completo ed esaustivo. Un confronto che arricchisce molto la “lettura” e l’analisi del film.

Valerio, qual è il significato simbolico del dottor Robert Morgan, ultimo uomo della terra?

Va premesso che in opere creative come il film in questione spesso si possono rintracciare delle significative allusioni a concetti tradizionali, o a una serie di simboli disseminati qui e lì, e questo al di là dell’effettiva volontà o consapevolezza dell’autore, come se un certo ordito simbolico emergesse attraverso la trama per conto suo, al pari d’una pianta che si faccia strada attraverso un invisibile pertugio nel cemento del muro. D’altro canto, va anche detto che tali allusioni è sempre chi le cerca che le trova.

Per venire a bomba, in Robert Morgan mi pare che riecheggi l’archetipo del cercatore spirituale; inizialmente restio con tutte le proprie forze all’amarissima e incredibile verità ventilata dall’amico-collega Sam Cortman sul fatto che i contagiati, una volta morti, tornino in vita come esseri assetati di sangue, si ricrede una volta per tutte quando la moglie, vittima del bacillo mortifero dopo che già la figlia aveva subito la medesima sorte, si ripresenta sulla soglia di casa metamorfosata in una sorta di zombi vampiresco; questo fatto pare ricalcare il processo cui spesso il cercatore spirituale soggiace: all’iniziale ritrosia verso certe verità dalle quali si può venire sfiorati in un’età ancora troppo acerba perché se ne possa essere toccati nel profondo, al pari dell’alimento solido indigesto per il lattante, può seguire, dopo dolorosi avvenimenti personali, un nuovo incontro con quelle stesse verità cui il dolore, paradossalmente benefico, ha finalmente aperto una breccia, ciò che segna l’inizio di un inesorabile iter di conoscenza, tanto straniante e insopportabile da un’angolazione mondana – perché collide coi pregiudizi cristallizzanti di un’esistenza meschina e abitudinaria (Dio fa nuove tutte le cose, Apocalisse 21,5, mentre il mondo è scialba ripetizione perché “non c’è nulla di nuovo sotto il sole”, Ecclesiaste 1,10) – quanto necessario e inevitabile dalla nuova prospettiva spirituale, squarcio luminoso nel plumbeo del vecchio cielo. In sintesi, il seme può giacere per anni nella nuda terra prima di manifestare le proprie possibilità come pianta.

Ulteriore analogia con il cercatore spirituale che nel film affiora con chiarezza disarmante è la percezione dell’isolamento rispetto al consesso umano: circondato da esseri il cui scopo esistenziale si limita a una sopravvivenza tutta orizzontale, il cercatore sa che il proprio orizzonte trascende le bassure mondane, il suo scopo essendo anche quello di difendere a spada tratta qualcosa di più alto –  la difesa della “vita” che il dottor Morgan nel film reclama a gran voce può essere letta come la difesa dell’“anima” (secondo il principio espresso in Matteo 16,26: “Qual vantaggio infatti avrà l’uomo se guadagnerà il mondo intero, e poi perderà la propria anima?”), vita e anima essendo sinonimi nel lessico del greco neotestamentario, codificati entrambi dal termine PSYCHE; tale difesa diventa a tal punto importante per il cercatore da assorbirlo integralmente, tutto il resto trascolorando in qualcosa di secondario (“una cosa sola è necessaria”, Luca 10,42), in una paradossale relazione da “solo a solo”, sintetizzabile nella nota frase in latino “o beata solitudo, o sola beatitudo”.

In Morgan, peraltro, in quanto ultimo della sua specie, si può ravvisare persino un accenno all’archetipo cristico; nell’ambito della tradizione cristiana Cristo è, tra le altre cose, l’alpha e l’omega, colui che apre e colui che chiude, l’Unico; gioverebbe meditare, a tal riguardo, su quel concetto cardine d’ogni dottrina metafisica contenuto in Giovanni 3,13: “Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo”. D’altro canto, nella morte di Morgan sull’altare della chiesa durante la scena che di fatto chiude il film si potrebbe scorgere l’accenno a un aspetto sacrificale, salvifico per i contagiati che sono rimasti aggrappati a una minima parvenza d’umanità grazie all’uso vincolante d’un vaccino: il sangue che dà l’immunità che il dottore, guarendola per sempre dagli effetti del contagio, ha trasfuso in Ruth, potrà infine guarire anche gli altri superstiti. Interessante, su questa stessa falsariga, è anche l’ipotesi che Morgan condivide con Ruth sulla misteriosa causa della propria immunità: un provvidenziale morso di pipistrello in quel di Panama, risalente a svariati anni prima, lo avrebbe infatti mitridatizzato, fatterello che, per certe analogie, potrebbe occultamente rimandare a pratiche di natura alchemica.

Da ultimo, secondo il principio del NOMEN OMEN, un accenno al nome Morgan, il cui etimo secondo taluni starebbe per “cerchio (o circolo) del mare”, espressione che pare rimandare a quel concettino presente in tutte le tradizioni autentiche e che nella tradizione cristiana è codificato nella lettera di Giacomo 3,6 con il sintagma TROCHON TES GENESEOS, “ruota dell’esistenza”; dietro la figura apparente di Morgan si celerebbe allora quella dell’“Unico trasmigrante” (per chiarimenti, che in questa sede non è possibile fornire per limiti di spazio, si veda l’omonimo saggio di Ananda Coomaraswamy).

Cosa rappresentano i vampiri in ambito tradizionale?

Il vampiro è notoriamente un essere la cui sopravvivenza è legata alla suzione del sangue d’una vittima la quale, una volta dissanguata e morta come essere umano, rinasce in una condizione infera di “non morto”, essere a sua volta vincolato dal circolo vizioso del perpetuo bisogno di sangue; come dice Morgan in un monologo all’inizio del film, “vogliono il mio sangue, la mia vita in cambio della loro”. Si potrebbe vedere quello vampiresco come uno scambio mortifero del tutto antitetico a quello vivificante espresso da Giovanni Battista nel noto passo di Giovanni 3,30: “Egli deve crescere e io invece diminuire”, lumeggiato a sua volta dalle paradossali parole che Gesù pronuncia in Matteo 10,39: “Chi avrà trovato la sua anima, la perderà: e chi avrà perduto la sua anima per causa mia, la troverà”. Dietro la figura del vampiro si cela quella di quei nemici contro cui Paolo di Tarso invita a ingaggiare la vera e santa battaglia, come in Efesini 6,12: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”, che è la stessa di coloro dai quali mette in guardia Gesù nel passo di Matteo 10,28: “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”. L’azione ricorrente di Morgan di uscire ogni mattina alla spietata ricerca dei vampiri che, non sopportando la luce del giorno, sono deboli e del tutto inermi, così da impalarli e gettarli nel cratere infiammato, non ricorda forse quel passo di Salmi 101,8: “Sterminerò ogni mattino tutti gli empi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male”?

Si sarebbe tentati di scorgere nella figura del vampiro un essere altro da noi, sussistente in regioni superne, in luoghi sottili (le potenze dell’aria di Efesini 2,2), e per certi versi ciò non è del tutto inesatto, sebbene questa sia una lettura per così dire orizzontale. Più utile sarebbe ricondurre il vampiro a quell’aspetto “esteriore” dell’uomo (la cui costituzione non è, come credono taluni, quella di un monolite o blocco granitico, ma piuttosto quella di un coacervo di elementi eterogenei) che cozza perennemente contro il suo aspetto interiore, secondo quel principio che si ritrova in 2Corinzi 4,16: “Se anche il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno”. Un uomo esteriore, vampirizzante, e un uomo interiore apparentemente vampirizzato, o meglio: dimenticato e sepolto nei recessi dell’anima intorbidata dall’azione infettiva del vampiro, ovvero di quelle potenze dell’anima tese all’esterno e non sublimate e poste al servizio dell’interno; quando Paolo di Tarso contrappone la “lettera che uccide” allo “spirito che vivifica” (2Corinzi 3,6) è di questa lotta individuale che parla, e del relativo atteggiamento dell’uomo che ora si indurisce fino a spezzarsi immedicabilmente quando volge lo sguardo all’esterno (la lettera vampirizzante, il “pensare secondo gli uomini e non secondo Dio”, Matteo 16,23), ora si flette senza mai potersi spezzare quando si sottomette all’interno (lo Spirito che esalta). In estrema sintesi, si potrebbe anche dire che, a seconda che le potenze dell’anima siano recalcitranti o sottomesse allo Spirito, si ha ora il vampiro, ora l’angelo (a tal riguardo, si dia una letta a “Le potenze dell’anima” di Elémire Zolla). L’apocatastasi (o reintegrazione) cui accennava Origene è, almeno in parte, alla possibilità di tale conversione o rivolgimento che può riferirsi. È possibile che Baudelaire avesse intuito tale scenario quando scrisse i versi finali dell’Héautontimorouménos (da I fiori del male):

“Sono il vampiro del mio cuore,

– uno di quei grandi abbandonati,

condannati al riso eterno

e che non possono più sorridere!”

Da ultimo, per riprendere quanto solo accennato poco sopra, quella del vampiro potrebbe essere vista come una possibilità di rinascita dell’anima individuale in una condizione d’esistenza inferiore rispetto a quella umana (per chiarimenti su un argomento così spinoso, si legga “Il mistero della morte nell’India tradizionale” di Gian Giuseppe Filippi).

Vedi un parallelismo tra la recente pandemia e l’argomento del film, ovvero la scomparsa del genere umano?

 Un primo, facile parallelismo è dato proprio da quanto accennato poco prima riguardo all’idea che nel film lo stesso Morgan si fa sulla genesi della propria immunità come derivante dal morso del pipistrello panamense; che il virus che ha innescato l’attuale pandemia proclamata a gran voce  dall’OMS, infatti, sia naturale o sintetico, parrebbe in ogni caso che l’origine sia da rintracciare nel DNA d’un pipistrello. Sempre per rimanere alla superficie delle cose, aggiungo questo: non pare di ritrovarsi improvvisamente gettati in uno scenario da film zombi ogni volta che, uscendo di casa, ci si imbatta in persone (e non sono poche, anche in quei luoghi dove non v’è obbligo alcuno) che, probabilmente già pavide di loro, e in più terrorizzate da una martellante propaganda spesso contraddittoria, indossano la famigerata mascherina anche solo per farsi una passeggiata in aperta campagna? Persone palesemente disorientate, talvolta barcollanti, parzialmente abbrutite dalla “museruola” e forse anche stordite, più di quanto non lo fossero ordinariamente, dalla carenza d’ossigeno… Non voglio dire che in costoro non vi fossero, talvolta latenti, talaltra in buona parte già manifesti, germi che ne facevano degli zombi calzati e vestiti, ma oggi è come se tali germi avessero trovato una via sicura per esplodere gemmando senza più alcun freno. Con il versetto di Matteo 10,26 si potrebbe dire che “non v’è nulla di nascosto che non debba essere svelato, e di segreto che non debba essere manifestato”.

Stando a certe dottrine tradizionali sul tempo ciclico, peraltro, che rimandano senza indugio a certi segni che alludono alla fine di un dato ciclo temporale che sempre prelude all’inizio di un ciclo nuovo, passaggio questo non esente da crisi d’ogni specie, si potrebbe dire che questa umanità sia destinata in ogni caso a lasciare il passo a un’umanità diversa; qualcuno potrebbe scorgere in ciò una visione millenaristica, ma questo è un dato riscontrabile in tutte le tradizioni. Del resto, che l’attuale umanità sia a un passo dal toccare il fondo della propria parabola – come si può arguire, siamo ben lontani da ogni visione progressista-darwininiana della storia dell’uomo per come è stata propalata da decenni di ottundente propaganda scolastica! –, mi pare evidente, e sfido chiunque abbia un po’ di sale in zucca (quanti ne sono rimasti?) a sostenere il contrario! È senz’altro vero, infatti, con Giovanni 5,19, che “il cosmo intero giace sotto il potere del maligno” non da oggi ma da fin dalla sua fondazione, e tuttavia mai come in questi tempi mi pare che la capacità di suggestionabilità dell’umanità abbia colmato la misura, e che il maligno stia maramaldeggiando su tutta la linea. Nel film in questione, in fin dei conti, all’armamentario classico del vampiro s’unisce quello dello zombi, dell’essere disanimato, esangue, caracollante, debole fisicamente (e spiritualmente), in balia del minimo soffio di vento (il bacillo, nella finzione del film, si dice che sia il vento a diffonderlo), simbolicamente preda di qualunque suggestione, stupido tanto quanto è malvagio (le due cose potendo ridursi a una sola).

Nel film è assai interessante un fatto già accennato: i vampiri-zombi che Morgan uccide coi paletti di legno da lui instancabilmente torniti vengono poi gettati in quello che lui definisce “quella specie di inferno, maledetto cratere”; mi pare di potervi leggere – voluta o meno è irrilevante – una possibile allusione alla nota Geenna di biblica memoria, una valle presso Gerusalemme scavata dal torrente Hinnom nella quale venivano bruciati bambini sacrificati a Moloch, solo in un secondo tempo usata come discarica di immondizie dove bruciava un fuoco perenne; in filigrana vi si può vedere un riferimento al destino infero delle anime per così dire “zombizzate” dal mondo (l’uomo esteriore che ha prevalso su quello interiore, per rifarsi a quanto detto in una risposta precedente), quelle anime la cui inclinazione ilica ha aperto il varco verso quella che in ambito tradizionale è chiamata “morte seconda”, o morte dell’anima, e in ogni caso un riferimento alla perenne trasmigrazione delle anime individuali come fossero macinate da una ruota triturante.

 

D’altro canto, interessante è anche il fatto che nel film l’umanità si divida in tre categorie: gli zombi-vampiri, contagiati senza possibilità di guarigione, che costituiscono la stragrande maggioranza dell’umanità che fu; una minoranza di contagiati che tuttavia conservano la lucidità d’uomini a patto di iniettarsi giornalmente un vaccino, pena il decadere nella condizione d’abbrutimento totale; il dottor Morgan, l’unico immune dalla malattia. Tale tripartizione pare riecheggiare certe tripartizioni di stampo tradizionale come quella basata sui guna della tradizione hindu (tamas, rajas, sattwa), o quella gnostica che divide le anime in iliche, psichiche e pneumatiche (o spirituali), di modo che gli ilici sono i mondani senza possibilità di salvezza, gli pneumatici o spirituali sono i cosiddetti “chiamati” (la cui elezione è tuttavia non certa), mentre gli psichici occupano una posizione ambigua, potendo inclinare tanto verso la condizione di servaggio mondano quanto verso quella di sottomissione a Dio, e più spesso essendo volubili come canne al vento; l’inclinazione psichica, per fare un esempio, si manifesta oggi in modo chiaro in certe mode new-age o pseudospirituali, quando non addirittura contro-iniziatiche: se l’ilico, infatti, è praticamente interessato in via esclusiva a riempire i propri stomaci e a soddisfare più o meno sfrenatamente il resto degli impulsi ferini, lo psichico è talvolta attratto da discorsi se non spirituali almeno spiritualoidi, ma la sua capacità di discernimento più simile a quella d’un moscerino che a quella d’un uomo lo fa  spesso e volentieri svicolare attratto da luci lampeggianti e colorate così come la falena finisce col morire bruciata dalle luci artificiali dei lampioni che la magnetizzano irresistibilmente. Sia chiaro questo: in termini tradizionali, quando si parla dei tre guna (o qualità) li si deve intendere come inclinazioni compresenti in ogni essere (oltre che in ogni oggetto della manifestazione, per esempio negli alimenti), ma una delle tre è sempre prevalente sulle altre, in proporzioni pressoché indefinite, in un modo però che a seconda del prevalere dell’una o dell’altra si possono operare delle classificazioni che, diversamente dall’errata comprensione di certi gnosticheggianti di ieri e di oggi, non escludono mai, foss’anche del tutto silente, la presenza dello Spirito immortale, che in tutto e attraverso tutto si manifesta – Spirito che, del resto, è per paradossale definizione una “voce di silenzio sottile” (1Re 19,12).

In conclusione: la parabola del film pare in tutto e per tutto riecheggiare gli stadi ultimi della parabola dell’attuale umanità secondo una visione tradizionale: un’umanità di zombi e di vampiri (di se stessi, come nella poesia di Baudelaire), destinati allo sfascio animico, ovvero a destini post-mortem orribili, di cui solo un piccolo resto è destinato a salvarsi.

Qual è il significato simbolico del cane?

Va detto che nel film il cane ha un ruolo in apparenza marginale: Morgan vi si imbatte accidentalmente in una delle sue ricognizioni anti-vampiro; dal momento che la desolazione indotta dal bacillo mortifero sembra non aver risparmiato neanche gli animali, quel cane pare a Morgan l’unica possibilità d’avere una compagnia vivente (questo prima che Morgan si imbatta in Ruth e poi negli altri superstiti che lo vogliono morto perché lo considerano un “mostro”, un enigma…). In ambito tradizionale il cane incarna un simbolo ancipite: ora fedele compagno, abilissimo psicopompo, guardiano di soglia che impedisce agli indegni di entrare in luoghi santi da un canto, ora simbolo dell’avidità, della ghiottoneria, dell’incontinenza, di ciò che è vile e turpe dall’altro. Quanto al primo aspetto, e anzitutto in quanto psicopompo, si veda, per citarne uno su tutti, l’Anubi egizio; quanto al secondo aspetto, si pensi che i non iniziati presso i primi cristiani erano detti “cani” (si veda il noto EXO OI KUNES, “fuori i cani!”, di Apocalisse 22,15, o anche l’uso che del termine fa Gesù in Matteo 7,6: “Non date le cose sante ai cani”, ma anche all’icastica espressione “cane di paglia” che nel quinto capitoletto del Tao Te Ching è un’allusione diretta al trattamento riservato dal Cielo e dalla Terra agli uomini ancora legati alle cose del mondo).

Tornando al film, mi pare che l’ambiguità che il simbolo veicola in molte tradizioni venga rispettata: da un canto il manifestarsi improvviso del cane nero potrebbe essere inteso come un preannuncio della morte imminente di Morgan (morte che potrebbe essere intesa in un senso iniziatico e sacrificale, come già accennato, dunque con un significato benefico); da un altro il cane nero potrebbe simboleggiare l’insieme delle caratteristiche infere che è necessario Morgan elimini da se stesso senza pietà, trascendendole: accertato che anche il cane è stato contagiato, infatti, in Morgan l’entusiasmo iniziale lascia il passo alla consapevolezza che la bestia va uccisa allo stesso modo degli zombi-vampiri, con un paletto acuminato; tuttavia è da notare che non nella fossa del fuoco perenne verrà gettata la carcassa della bestiola, ma verrà sepolta, più pietosamente, in aperta campagna.

C’è un romanzo o un racconto che vorresti suggerire ai lettori per approfondire le tante tematiche presenti nel film?

Ne suggerirò due, in qualche modo complementari rispetto al film: il poco conosciuto “Schiavi degli invisibili” di Eric Frank Russell e “I parassiti della mente” di Colin Wilson. Al centro delle vicende di entrambi c’è la scoperta dell’esistenza di una razza di esseri vampirici, esseri che tengono l’uomo in perenne schiavitù drenando le sue energie e facendo dell’umanità un enorme allevamento di mucche da mungere fino a esaurimento del latte e tuttavia rimpiazzabili ad infinitum. Come si può facilmente dedurre, in questi testi la prospettiva rispetto al film è in qualche modo rovesciata: ai vampiri-zombi che nel film sono ben visibili, in una battaglia trasponibile in senso interiore perché si tratta di un uno contro tutti, fanno da contraltare esseri invisibili, nascosti, sconosciuti, che tengono in ostaggio non uno solo ma l’intera umanità. Cambia la prospettiva, ma non il senso di fondo, che però in ultima analisi può essere compreso se si pone mente al misteriosissimo frammento eracliteo che dice: “AION è un bambino che gioca con le tessere di una scacchiera: di un bambino è il regno”: si allude a quella che in certi testi hindu è conosciuta come la dottrina del Sutratman, il “gran burattinaio” che muove tutti i fili: a ognuno, individualmente e in apparenza, spetta di interpretare il proprio ruolo, ma alla fine della fiera tutti gli apparenti giocatori di questo enorme spettacolo, vittime o carnefici, schiavi o in cerca di liberazione, sono i giocattoli di un solo giocatore!

Un grazie doveroso a Valerio Raimondi.

 ANTONELLA PEDICELLI

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