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Intervista ad Ascanio Celestini

Foto di ©Musacchio Ianniello & Pasqualini Foto di ©Musacchio Ianniello & Pasqualini

Oggi abbiamo il piacere di intervistare Ascanio Celestini, attore e regista, che racconta l’origine delle sue storie famigliari e riflette sul bisogno intrinseco dell’uomo di raccontarsi agli altri per non sentirsi solo.

Vorrei chiederle quando ha capito di voler fare l’artista e, guardando indietro, cosa direbbe a quella versione più giovane di sé stesso. Inoltre, cosa consiglierebbe ad un giovane che vorrebbe lavorare nell’ambito teatrale/artistico in un periodo così complicato.

Nella mia famiglia si raccontavano storie. Mio padre e mia nonna erano i narratori domestici ai quali veniva affidato il compito di narrare. Mio padre raccontava le storie della sua infanzia e in particolare quelle che individuavano nella guerra la cornice principale. Erano storie famigliari, ma rientravano in una tipologia generale che individuava nell’”altro” non un corpo estraneo, un nemico (anche quando si trattava dell’occupante tedesco), ma un elemento da reintegrare in una comunità: se non quella degli italiani, almeno quella degli esseri umani sofferenti.

Mia nonna aveva un repertorio di storie di streghe. Si intrecciava con una tradizione famigliare. Secondo una leggenda del ramo femminile della mia famiglia un nostro parente catturò una strega e lei, in cambio della liberazione, protesse la nostra discendenza dai malefici per sette generazioni. Contemporaneamente le sorelle e una figlia di mia nonna erano depositarie di una speciale competenza: la capacità di curare con l’imposizione delle mani.

Sono cresciuto con tutte queste e il fascino per esse è alla base del mio interesse per il racconto. Potendo tornare indietro raccoglierei più interviste con le persone della mia famiglia. Ci mettiamo pochissimo ad arrivare in ritardo, a farci prendere in contropiede. Spesso ci accorgiamo del valore della memoria quando ne resta poca. E in un periodo complicato come il presente è fondamentale prepararci e mettere da parte più memoria possibile.

Veniamo al suo ultimo successo, il grande ritorno in scena con Radio Clandestina. È stato emozionante essere il primo attore italiano a tornare in scena? Ha sentito una responsabilità “politica”?

Ho fatto l’ultimo spettacolo prima del lockdown il 3 marzo a Asti. Dopo gli applausi ci siamo chiusi in camerino a leggere online le ultime notizie. “Evitare baci, abbracci e strette di mano. I gesti della consuetudine quotidiana con cui in Italia ci si saluta e che possono contribuire in maniera considerevole a far correre il contagio”. Così diceva il giornale online. E siamo rimasti fermi per 100 giorni. Appena è stato possibile sono tornato sul palco. Il 15 giugno a mezzanotte e un minuto stavamo al Teatro Sperimentale di Pesaro con Radio Clandestina, uno spettacolo che porto in scena da vent’anni.

Gli spazi dello spettacolo (che in questo periodo sono soprattutto all’aperto) dovrebbero aprire tutti. Nella maggior parte dei casi le difficoltà sono soltanto un pretesto. Gli spazi non hanno bisogno di igienizzazione straordinaria. In più rispetto alla consuetudine serve alcol o varichina. Punto.

Poi ci sono le mascherine da indossare fino al raggiungimento del posto a sedere e un po’ di distanziamento. Hanno riaperto ristoranti e parrucchieri, i supermercati non hanno chiuso mai e nemmeno le fabbriche di armi. In questi giorni viviamo costantemente una situazione grottesca con le file davanti alle transenne che delimitano le piazze nelle quali facciamo spettacolo, la misurazione della temperatura agli spettatori che hanno prenotato il posto da giorni anche quando l’ingresso è gratuito, le sedie distanziate e poi, dopo l’ultimo applauso andiamo tutti a cena in locali affollati lungo strade dove si cammina a fatica tra persone senza mascherina.

Più che una responsabilità politica sento pesare sulla cultura un atteggiamento che è stato ben sintetizzato dal nostro presidente del consiglio. Noi artisti siamo quelli che fanno sorridere e appassionare. Siamo un prodotto utile a far passare un’oretta di distensione. Un’alternativa all’aperitivo.

Secondo lei, che è un grande cantore e narratore di storie, sarebbe possibile rintracciare un filo che collega tutte le sue storie?

In tempo di guerra mia madre fu spedita in un paese del nord perché i genitori speravano che lì corresse meno pericoli. Quando tornò a Roma vide i lampioni accesi lungo le strade bagnate e le sembrò che le strade fossero d’argento. Quella sera mangiarono i datteri e lei capì che era proprio finita la guerra. Un giorno s’è messa seduta e m’ha ri-accontato questa e altre storie per più di due ore. Non per le storie, ma per le due ore da passare insieme. Il filo che collega le nostre storie è che raccontiamo per non restare soli.

Chiudiamo con i suoi prossimi progetti futuri. Quali sono e dove possiamo vederla in scena?

In questi giorni sto incontrando Tonino Battista e i musicisti della PMCE. A fine settembre saremo all’Auditorium di Roma con Pulcinella di Stravinskij e Pierino di Prokofiev. E poi sarò in Belgio con Patrick Babi e David Murgia, traduttore e attore della versione francese del mio Pueblo. Lavoriamo insieme da sette anni e in autunno debutteremo a Namur col nostro terzo spettacolo.

 

Luca Pulejo

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